Una delle domande dell’intervista riguardava il celebre detto “tra il dire e il fare c’è di mezzo…”: l’intervistato doveva completare a suo piacimento la frase. Una parte di me voleva far riflettere (inconsapevolmente) gli intervistati (le persone) sul fatto che a volte si esprimono intenzioni importanti, bellissime, stupefacenti, però, dopotutto, rimangono solo parole: una bella teoria senza una buona pratica ha meno valore di quanto sembri. [Per questo solitamente il racconto di un ricordo assume una connotazione più reale, più pregnante, anche se è ‘il passato’: perché rievoca situazioni comunque, in qualche modo, “agite”]. Ovviamente nessun intervistato poteva intendere il mio intento, ma intanto ho potuto indagare su come ognuno si gestiva la domanda: sorrisi, imbarazzi, silenzi..……………………………………………………………………… …………… …….. ………… ………………e tanto tanto… mare………….……..Nella mia vita ho conosciuto parecchia gente, x lavoro, x diletto e x difetto, e tante volte ho incontrato persone che si esprimevano con molta convinzione e con molta profondità, con tante belle intenzioni, oppure che mi lasciavano chiara la sensazione che avessi appena incontrato qualcuno con del talento, con delle potenzialità, talvolta enormi,talvolta persino superiori alle mie. Poi ho atteso e atteso i frutti del seme delle parole. Ho atteso. Ho atteso… HO ATTESO………………..HO ATTESO……….Ho atteso………………………………………..………………………………………………………. Ora, ho visto queste persone ripetere le stesse parole con le stesse pause negli stessi punti, le ho viste sfasciarsi davanti ai miei occhi, le ho viste perdersi nella saliva di uno sputacchio al bordo del marciapiede. Le ho viste aggrovigliarsi in atti masturbatori fini a se stessi, auto contemplarsi x una parola usata nel modo giusto al momento giusto, stringere il pugno facendo uscire scorregge. Non voglio essere volgare, infondo anche questo è solo un atto di scrittura, e certo anch’io mi sono perso (…ma per amore). Soprattutto non sono certo io a poter dare una sensata interpretazione di tutti gli infiniti rilucenti segreti racchiusi in ogni singolo essere umano(anche il più meschino). In realtà ci tengo solamente a mettere in evidenza che la celebre, illuminata e consolidata teoria di Austin secondo cui “dire è fare”, risulta, x necessità, ampiamente superata o, meglio, da superare (Ma la scrittura è dire o fare?…). Ad ogni modo asserire non è proprio + sufficiente, è una forma che non basta a garantire la nostra sopravvivenza. Occorre dire e agire, occorre compattarli. In questo scritto non c’è un monito, non c’è un intento di convincere qualcuno di alcunché, intendo solo porre in evidenza che dire e fare possono coincidere, teoria e azione possono essere un’unica entità compatta che crea risonanze. E se ciò non accade, allora è lì la discrepanza che provoca il danno che il mondo infligge a se stesso. E lì occorre andare. Perché lì è l’unica strada. E la scrittura è una strada? Ma certo, può essere una strada, un sentierino, uno stradone, anche se probabilmente da sola non basta. In ogni caso può essere una prima tappa piuttosto appetitosa. E in ogni caso va fermata, fissata nel tempo con una data:ecco, oggi è il 24 settembre 2010.Fissare gli obiettivi per tappe riconduce a una prassi, a un metodo, a una disciplina, a una schematizzazione o a una divagazione, insomma, a un atto di scrittura. Perfino l’energia da sola non basta: ci distrugge se non sappiamo con precisione dove indirizzarla. Occorre un indirizzo. Inevitabilmente. E ogni indirizzo porta a un viaggio e, dunque, a un’azione, il resto è immobilità. E l’immobilità è infelicità.L’altro giorno mi ha telefonato una ragazza, probabilmente senza un motivo preciso, e si è messa a raccontarmi che ha deciso di cercarsi un lavoro come dipendente, perché lavorare in proprio le da troppi pensieri (bel momento x cercare lavoro), mi raccontava dei vantaggi dell’iniziare e finire una giornata in modo definito, monotono e disimpegnato. Dopo 20 minuti che raccontava ero ancora lì a chiedermi perché avesse chiamato proprio me per dirmi quelle cose, ma poi, dopo un’oretta dalla fine della telefonata, mi sono accorto che quel racconto mi aveva turbato. Ho ricordato che tutto ciò che avevo fortemente desiderato, quando l’ho raggiunto e l’ho posseduto, ha presto perso di valore, e l’ho rifuggito. E quanto più sembrava costituirsi una sorta di meccanismo automatico nella mia mente (nella mia vita), appositamente finalizzato a questo scopo di egemonia / conquista / dominio, tanto più avevo la sensazione di allontanarmi da me stesso. Ma, dopotutto,cosa significa ‘rifuggire da ciò che si possiede’ quando, a ben vedere, nessuno può possedere alcunché? I documenti firmati e controfirmati che ci suggeriscono che esiste una proprietà sono imbrogli così come lo sono le carte colorate con cui facciamo acquisti, gli alimenti che compriamo, ingeriamo e poi espelliamo. Se non li espellessimo, esploderemmo!! Il concetto stesso di proprietà è solo un sofisticato illusionismo. Ogni slogan promozionale che violenta le nostre pupille lo sottintende! Ogni culo ritoccato appiccicato a un cartellone lungo la statale lo urla incessantemente! Nessuno può davvero possedere (…nemmeno il proprio culo….) e, di conseguenza, nessuno può davvero rifuggire. L’irrazionalismo che ci governa ne è una prova. Nulla può essere davvero rifuggito (né tanto meno posseduto). E allora occorre affrontare e perdere ogni possesso. E affrontare può essere un atto di scrittura (che è anche dare, ovvero perdere il possesso dei propri pensieri). Ma la scrittura è dire o fare?… Non so rispondere a questa domanda, però alla domanda“tra il dire e il fare c’è di mezzo…?”, io rispondo: “…c’è di mezzo la scrittura!”